Il trigone di Felidhoo


Maldive, luogo in cui i colori di cielo, Mare e sabbia si incontrano in un’unica parola: Atollo. Siamo in crociera subacquea e dopo diversi giorni di immersioni giungiamo nell’atollo di Felidhoo, dove ci apprestiamo a fare una notturna, ad Alimathà.

A bordo la fioca luce gialla del Doni consente a stento la vestizione ed il controllo delle attrezzature, ma una luce più forte farebbe restringere troppo le nostre pupille impedendoci di percepire quella lunare riflessa dal Mare con evidenti problemi di navigazione. Appena pronti spegniamo anche questa ed è buio. Dopo un po’ gli occhi si abituano e la luce della Luna diventa la nostra guida.

L’immersione inizia in modo rocambolesco, Sara si tuffa per seconda dopo il dive master e perde subito la maschera, mi grida “lanciami un’altra maschera!”; io in bilico con l’attrezzatura indossata, un attimo prima del passo del gigante rientro a bordo e sto già rovistando nelle ceste, trovo una maschera, gliela lancio, poi mi tuffo, si tuffa Jean Claude e siamo sotto. All’improvviso JeanClode scompare, ricomparendo dopo qualche minuto: aveva ritrovato la maschera nera di Sara durante una notturna, incredibile! gliela porge, Sara la sostituisce e si riparte. Raramente mi è capitato di incontrare una persona magnetica come Jean Claude: 60 anni, cittadino del mondo, l’aplomb di un nobile dell’800, l’esperienza di migliaia di immersioni in Mare e non solo, scrive poesie ed è eternamente innamorato, di una gorgonia, di un panorama, di una Paese, di una donna.

La notturna inizia come tante ma finisce come poche. Siamo subito sul fondo sabbioso a -18 ed avanziamo con la parete sulla destra. E’ una bella immersione perché siamo solo in 4 (guide incluse) c’è poca confusione e le probabilità di fare begli incontri aumentano. Un pesce pappagallo dentro il suo bozzolo ben nascosto tra gli scogli fa l’indifferente: è la sua strategia per difendersi dai predatori, si rinchiude in un bozzolo di muco trasparente in modo da evitare che il proprio odore si disperda nell’acqua attirandoli.

Due enormi carangidi pattugliano il reef ed illuminati dalle torce rivelano tutta la loro argentea livrea. Bello si, ma avvistamenti abbastanza comuni, mi aspetto di più. All’improvviso il momento che tutti aspettavamo: si intravede una coda di squalo Nutrice o Leopardo non siamo riusciti a capirlo. Tutti immobili, io inizio ad armeggiare con diaframmi e flash, gli altri scrutano il buio alla ricerca di un segnale che possa palesare la presenza del selace, ma niente, il nostro amico non si fa più vedere. Questi pesci, molto primitivi, tra le tante caratteristiche peculiari hanno quella di non avere uno scheletro osseo bensì una struttura di cartilagine.

Il tempo passa e noi prendiamo la via del ritorno verso il punto in cui sarebbe venuta a riprenderci la barca, Jean Claude ed io più in basso, Sara e Giacomo qualche metro più in su, quando ad un tratto Jean attira la mia attenzione agitando freneticamente lo shaker. Io mi volto e non credo ai miei occhi: il trigone (2 mt. di diametro circa) avanzava spedito, sicuro, incurante di me, descrivendo ampie sinusoidi; eravamo esattamente alla stessa quota. Lui non accennava a rallentare, io non ci pensavo proprio a spostarmi. Traguardo la creatura nel mirino galileiano della mia Nikonos V ed aspetto. Lui continua, io non mi muovo, sento Sara qualche metro più su che grida letteralmente nell’erogatore (qualche settimana prima Ian Irving era morto a causa di una sfortunata collisione proprio con un trigone – forse erano grida di speranza!?), appena il trigone riempie tutto il fotogramma scatto, ma lui continua. Solo ad un metro si accorge di me e come un puledro in corsa che vede il burrone all’ultimo momento, s’impenna mostrandomi il bianco ventre e la linea della bocca, scatto di nuovo poi lui vira a sinistra e si allontana. Lo inseguo invano, altri due scatti ed il suo manto grigio aumenta sempre più di tono fino a fondersi nel nero Blu.

Rivedo il trigone tutte le mattine e tutte le volte sembra voler uscire dalla sua cornice per venirmi incontro nei ricordi di quella bellissima serata passata in mezzo al Mare.


A casa di squali mako e verdesche


Qua stiamo parlando di immersioni oceaniche allo stato puro: squali mako e verdesche si trovano al largo delle isole Pico e Fajal, a circa un’ora di navigazione a velocità sostenuta dal porto di Madalena, la base del nostro diving, il CW Azores, a Pico. Isola che già di suo è nel bel mezzo dell’Atlantico.

Qui il blu non manca di certo. Ci si immerge su un pianoro che sale a 200-240 metri di profondità, da una base ben più fonda. Si arriva col gommone e subito si pastura. Ma parsimoniosamente: giusto qualche pezzo di pesce in un sacco traforato, con il condimento di una maleodorante zuppa di sangue, olio di pesce, acqua marina e interiora rigonfie che Martin, la nostra guida, strizza e dispensa con flemma olandese (e un certo gusto dell’orrido tipico dei vent’anni…). In termini di cibo, comunque, è poca roba rispetto alla massiccia pasturazione (“chumming”) vista fare altrove. Si vede che questi squali pelagici sono esseri frugali.

Siamo fortunati, dopo neanche dieci minuti arrivano le prime verdesche: eleganti fantasmi blu di due metri che iniziano a girare intorno alla barca. Quando il sole ne illumina il dorso, la pelle sembra cangiante e vira dall’azzurro intenso al verde e poi di nuovo azzurro. Ci si veste al volo con ovvia eccitazione e poi spluff! finalmente nel blu. Le verdesche arrivano dal basso con il loro nuoto sinuoso, sembrano materializzarsi dal nulla, il colore del dorso che si confonde con il mare. Mica per niente in inglese la verdesca si chiama “Blue shark”, squalo blu. Le verdesche si avvicinano molto, ti sfiorano con il muso e il corpo sottile, guardandoti con i loro occhioni un po’ acquosi e poi scivolano via alla ricerca di qualche frammento di pesce. Uno spettacolo ipnotico. Sono bellissime: verrebbe da portarsene una a casa, come cucciolotto domestico (peccato che sia un animale un po’ difficile da tenere in appartamento a Milano, in effetti).

All’improvviso con la coda dell’occhio vedo un missile argenteo che mi arriva alle spalle e mi supera. Mako! Mako! Mako! Due metri e mezzo abbondanti di squalo muscoloso, il nuoto veloce, vibrante, nervoso. Punta con insistenza al sacchetto di rete con dentro il pesce: sacchetto che gli viene puntualmente sfilato da sotto il muso dall’esperto skipper. Il mako nuota sicuro in mezzo a noi, l’occhio nero e i denti sporgenti che, quando viene dritto verso di te, ti fanno pensare per un momento “Opporcavacca”. Poi lui gira ad angolo retto, giusto una spanna davanti alla maschera. E in definitiva si fa gli affari suoi. Così per quasi un’ora  – credetemi, un’ora da sballo. Ma le immagini possono valere più delle parole. Queste le ha girate il mio compagno d’immersioni Pierre Couillaud, un ragazzo parigino con la stessa strana malattia per gli squali che mi ritrovo addosso io e con il quale ho condiviso questa esperienza.


In cerca dello squalo Zambesi


Oman. Una delle guide subacquee dell’Oman Diving Center, alla fine di un’immersione con autorespiratore a Mermeide Cove, mi sta raccontando “ … sai, qui vicino, qualche volta ho incontrato uno squalo Zambesi”. Urca! Uno Zambesi!

Lo squalo Zambesi è quello che gli anglosassoni chiamano “Bull Shark”. Nome scientifico Carcharhinus leucas. Squalo niente facile da osservare: come habitat predilige foci di fiumi e acque costiere con scarsa visibilità, dove può facilmente insidiare le sue prede. Vive benissimo nei fiumi, anche a migliaia di chilometri dalla foce. E riesce a campare persino nei laghi (nel lago Nicaragua è accertata la sua presenza). Affascinante… E’ uno squalo dal corpo massiccio, considerato pericoloso e aggressivo. Ma io non sono totalmente convinto di ciò: la mia personalissima convinzione è che, prediligendo ambienti costieri con acque torbide, abbia una certa facilità di contatto con la specie umana e, per la scarsa visibilità, qualche volta attacchi l’uomo per sbaglio.

Tornando alla guida subacquea, io immediatamente propongo: “Beh, allora domani veniamo qui a fare una bella immersione dedicata alla ricerca dello Zambesi…”.  La guida è un ragazzo simpatico dello Sri Lanka, che scuote la testa e mi dice: “Non possiamo: è molto improbabile incontrarlo. In tanti anni di immersioni qui, l’ho visto un paio di volte. Il rischio di pianificare un’immersione intorno a questo squalo è che alla fine non si veda nulla, né squalo, né altro. A quel punto i clienti sono tutti scontenti”. Logico. Mica sono tutti ossessionati dagli squali come me. Allora gli rispondo: “Vorrà dire mi aggregherò al prossimo gruppo che farà un’immersione qui, poi procederò da solo, in apnea. Fammi per favore sapere quando ci sarà la prossima immersione qui.” La prossima immersione è l’indomani, di primo pomeriggio.

Alle 14 sono pronto davanti al Diving. Tutta la poca attrezzatura da apnea sta comodamente nella sacca della monopinna. Che desta sempre curiosità tra gli amici bombolari… Tempo di fare un veloce appello e via, ci si incammina sul pontile, verso la barca. Sistemiamo le attrezzature a bordo, rapida conta dei subacque e via.

Pochi minuti di navigazione, la barca si ferma e attracca al gavitello di Mermeide Cove. Una piccola cala tranquilla, riparata. La guida mi spiega che le migliori possibilità d’incontro ci sono nella zona tra Mermeide Cove e il sito d’immersione adiacente, noto come Sea Horse Haze. Rimarrò sempre a vista della barca ormeggiata e del marinaio, le distanze non sono grandi. Entriamo in acqua. Mi stacco dal gruppo di bombolari per seguire la mia pista. Un tuffo sotto la barca per sgranchirmi le gambe e i polmoni, pinneggiando abbastanza lentamente e portandomi verso lo sbocco della cala. Riemergo. Mi preparo, ventilandomi con calma e scendo, con l’intenzione di attraversare in larghezza la cala, da punta nord a punta sud, un tratto di 50-60 metri. Nuoto a delfino lento, cerco di rilassarmi e risparmiare ossigeno, ma anche di guardarmi intorno: vedo belle formazioni coralline, coralli duri e coralli molli, molto colorati. Scendo alla base della parete, ma la profondità resta contenuta. Qui la roccia ed i coralli finiscono ed inizia un pianoro di sabbia. Ci nuoto sopra. E’ costellato di buchi di vermi e molluschi. Visto che si tratta di attraversare una distesa di sabbia decido di nuotare da monopinnatista: testa bassa tra le braccia tese in avanti. Poi alzo la testa per vedere se la mia rotta è lineare e vedo lo squalo. E’ a una quindicina di metri e si dirige dritto dritto verso di me. Smetto di pinneggiare e mi adagio sul fondo. Non capisco ancora di che specie si tratti, perché mi arriva proprio di fronte. Ma è grosso. Penso in sequenza: “Zambesi.” “No,troppo snello,  è un grigio.” “Grigio? No! Squalo pinna nera di barriera!”.  Mai visto così grosso! Due metri  e mezzo, praticamente il massimo raggiungibile dalla specie. Bellissimo, elegante, il corpo muscoloso color nocciola e quelle tacche nere orlate di bianco ad ornare le pinne. Lo squalo rallenta. Rallenta ancora. Mi passa a fianco, sguardo diffidente ed indagatore mentre scivola silenzioso a mezzo metro da me, con quel  suo invidiabile nuoto privo di sforzo apparente. Fa un mezzo giro intorno a me per finire la sua analisi e poi se ne riparte, con una progressione decisa, proseguendo per la sua strada. Lo guardo sparire nell’orizzonte blu e poi riemergo lentamente. Sono soddisfatto: potrei tornare sulla barca. Potrei. Ma visto che sono in acqua… vado avanti. Alzo la testa e vedo il barcaiolo mi  guarda, gli faccio cenno di OK, lui pure.

Mi dirigo appena oltre la punta sud. La linea di costa è praticamente diritta e io nuoto lentamente sott’acqua a 5/6 metri di profondità, mantenendomi parallelo alla costa ed appena più su del gigantesco pianoro corallino, che degrada verso il fondale sabbioso qualche metro più in basso. Il pianoro, da solo, è uno spettacolo: una prateria di coralli molli gialli e rossi attecchiti sopra una vasta distesa di madrepore incrostanti. Alzo lo sguardo e mi trovo circondato da un branco di una trentina di carangidi come non ne ho mai visti: grandi e piatti, il corpo argenteo, con lunghissimi filamenti che pendono dalle pinne dorsali e anali. E per “lunghissimi” intendo un metro e mezzo. Sembrano adorni di stelle filanti. Appurerò successivamente che si tratta di Alectis Ciliaris: un gioiello del mare di rara bellezza.

Smetto di muovermi e mi fermo sul fondo, aggrappato con un dito ad un angolo di roccia disadorna, “all’aspetto”. Loro mi carosellano intorno. Sto lì e lì guardo finche il mio corpo non mi dice che è meglio risalire. Recupero e torno giù. E loro sono sempre lì a danzarmi intorno. Vado avanti così per un po’, domandandomi se mai quei carangidi bellissimi se ne andranno. Durante uno di questi appostamenti sul fondo, con la coda dell’occhio avverto una presenza e dopo una frazione di secondo una grande massa scura mi sfila di fianco. Potente schizzo di adrenalina nel sangue! Ormai mi ha passato: è un grosso squalo corpulento di colore scuro. Lo Zambesi. Tre metri. Si allontana da me lentamente ma con moto rettilineo, senza mostrare alcuna intenzione di tornare indietro. L’emozione mi ha fatto bruscamente calare il tasso di ossigeno nel sangue, devo riemergere. Sono pieno di adrenalina, con i muscoli lievemente tremolanti. Tento altre attese sul fondo corallino, intercalate da lente nuotate a varie profondità, ma nulla, lo squalone è sparito. Decido che per oggi ne ho abbastanza e mi dirigo verso la barca. In fondo alla mia mente c’è anche un minimo timore, che mi induce a levarmi da lì. In fondo ha una pessima fama.

Qualche minuto dopo, sulla barca, mi asciugo al sole in silenzio. Negli occhi e nella mente quella massa scura color cobalto che mi passa di fianco…


Squali dell’Oman – Pinna nera a go go


Dopo il primo giorno di immersioni con bombole, un paio d’immersioni carine sì, ma non esaltanti, decido di andare a fare un po’ di apnea all’imbocco del fiordo che ospita il resort. Il richiamo dell’apnea è troppo forte. E poi una delle guide del diving mi  ha detto che a volte si vedono dei “blacktips”, cioè degli squali pinna nera di barriera, e delle tartarughe.

Entro nell’acqua bassissima, calzo la monopinna ai piedi, sputacchio nella maschera, infilo lo snorkel in bocca e mi avvio. Il fiordo è lungo circa 500 metri e ci si mette un po’ ad arrivare al suo imbocco,… l’acqua è caldissima, costante a 37°, anche sul fondo, un vero brodo. La visibilità è pessima, ma non c’è molto da vedere: sul fondo, solo sabbia. Fa caldo pure in acqua, non c’è mai pace e refrigerio. I primi dubbi sulla scelta della località per questo viaggio si fanno già strada nel cervello (bollito).

Appena prima dell’imbocco del fiordo, la parete del fiordo forma una rientranza, una piccola insenatura. Vado a dare un’occhiata: da quanto mi hanno detto al Diving, è qui che di solito girano le tartarughe. Capovolta. E sono subito sul fondo: la profondità sarà al massimo di 4 metri. Coralli! Che sorpresa, con questa temperatura dell’acqua. Sono coralli a corna d’alce e coralli cervello. O quantomeno assomigliano parecchio alle specie nominate. Sono vivi e colorati, viola, verdi, gialli. In mezzo ai coralli, oltre a pesci di barriera, una moltitudine di ricci marini dagli aculei sottili e lunghissimi. Non pensavo nemmeno che i coralli potessero vivere a queste temperature estreme! E invece questi si sono adattati proprio bene. Mi domando se si tratti di un fenomeno noto ai biologi marini. Forse sarebbe da segnalare a qualcuno.

La tartaruga non si fa aspettare. Ne vedo subito una, non molto grande, immobile in mezzo ai coralli. Mi fermo e la osservo da un paio di metri di distanza. Poi mi muovo e mi allontano. Riemergo e respiro. A una quindicina di metri da me c’è un’altra testolina che sbuca dalla superficie calmissima. E’ un’altra tartaruga, che sta facendo esattamente quello che faccio io: respira bene prima di un’apnea. Un altro giro sott’acqua per vedere bene questa grande chiazza corallina e poi è tempo di doppiare la punta del fiordo.

Appena fuori dal fiordo l’acqua è lievemente più fresca: 36° in superficie e 30° sul fondo. Fondo che è sempre fra i 5 ed i 10 metri, poca roba. Incomincio ad esplorare la zona nuotando rasente il fondo, ondeggiando lento con la monopinna. Il fondale è formato da roccia chiara, i coralli crescono sulla roccia ma non formano una vera barriera. Dalla nebbiolina (la visibilità è quella che è, oscilla dai 5 ai 15 metri) emerge un gruppetto di pesci pipistrello. Vado avanti seguendo la linea di costa, la visibilità migliora mano a mano che mi allontano dal fiordo. Ad un tratto, emerge dal nulla uno squalo pinna nera di barriera, di circa un metro. Eia! Segue una rotta obliqua rispetto alla mia, praticamente mi taglia la strada. Mi acquatto sul fondo, immobile, all’aspetto. Lui vira ed inizia a girarmi intorno. Ne arrivano altri, più piccoli, più grossi, di tutte le misure… e anche loro iniziano il girotondo lento e irregolare. Vorrei che i secondi non passassero mai. Ma devo risalire. In superficie mi ventilo bene in posizione prona per beneficiare di una maggior quantità di aria fresca e poi scendo di nuovo. E loro arrivano quasi subito. Li conto: sono una quindicina. I più piccoli arrivano a mala pena al mezzo metro di lunghezza, i più grossi sono vicini ai due metri. E’ raro vederne di queste dimensioni. Sono predatori delle lagune e delle acque costiere, soprattutto quelle sabbiose. Se ne vedono molti nelle lagune maldiviane, ma sono quasi sempre di taglia inferiore al metro. Questi sono grossi! E tanti! Li guardo e cerco di imprimere nella memoria il colore nocciola chiaro del loro corpo, le loro forme snelle ed eleganti. E’ uno dei miei squali preferiti.

I miei tuffi si ripetono, io mi rilasso e le apnee si fanno lunghe, così mi godo pienamente il “film” degli squali, che si ripete sempre più o meno uguale. Con la nota positiva che arrivano ancora altri squali. Penso proprio di essere la novità della giornata e di incuriosirli parecchio: sono abbastanza grosso, quindi potenzialmente minaccioso, però me ne sto fermo sul fondo senza fare rumore e forse potrei essere commestibile, ma non sono morto perché ogni tanto mi muovo e quindi non conviene provare ad assaggiarmi. Per loro il massimo deve essere che dopo un po’  – meraviglia – salgo verso la superficie, per loro luogo estremo e di confine. Quando ciò avviene, gli squali si innervosiscono e si allontanano, per poi riavvicinarsi al tuffo successivo, sempre più vicini mano a mano che passa il tempo dell’apnea. Che poi è quello che fanno quasi tutti i pesci, di qualunque dimensione e in qualunque latitudine e ambiente. Si avvicinano molto, passano davanti alla mia maschera a mezzo metro di distanza e per un momento i nostri occhi si incrociano, ma non manifestano affatto aggressività. Nuotano come divinità del mare, senza sforzo e silenziosi.

Starei lì in eterno. Ma dopo un’ora e più ritengo sia il caso di tornare tra i bipedi.  Soddisfattissimo. Qua il caldo ti stende, ma niente da dire: di roba sott’acqua ce n’è…


Squali dell’Oman – Arrivo


Ore 14.00. Arrivati da nemmeno un’ora al resort.
“Non posso resistere a questa temperatura. Il mio sistema cardiocircolatorio non ce la farà”. Seduto al tavolo del ristorante all’aperto dell’Oman Diving Center, di fronte a Marco, mio figlio di sei anni, e a mia moglie Elisabetta, mi sforzo di dissimulare questi pensieri con un’espressione che vuole essere serena. E’ luglio. Ci sono circa 45°. E’ umido. Non si respira. Avverto la fatica profonda dell’organismo.
Quando ci tuffiamo nelle acque antistanti del resort che ci ospita, sorpresa! L’acqua è caldissima. Zero refrigerio.In sintesi: alla temperatura da forno non si scappa da nessuna parte. Il mio mitico Suunto D4 non mente: l’acqua è 37°. Incredibile. Mai sperimentato nulla di simile.
Questo è l’Oman d’estate.
Il piccolo resort dell’Oman Diving Center (tutto di proprietà del Sultano, tanto per gradire) è situato al fondo di un lungo fiordo, a qualche decina di chilometri da Muscat, la capitale. Certo, il termine “fiordo” fa venire alla mente acque gelide, qui ovviamente siamo agli antipodi. Tutta la linea costiera della zona della capitale si conforma così: un dedalo di fiordi e isolette, con mare poco profondo. La roccia è aspra, tagliente, di colore chiaro. Cade a picco nel mare e ogni tanto si apre in calette sabbiose. Vegetazione praticamente assente. Il paesaggio è piuttosto bello. Peccato per qualche grosso cantiere che si intravede qua e là: costruiscono, prevalentemente alberghi di buon livello. Ma la costa è ancora ragionevolmente selvaggia. Posto interessante. Sono qua in cerca di roba grossa: squali e cetacei – pare ce ne siano parecchi.