Vorrei essere quella megattera


Megattera

In fondo, noi che amiamo il mare non siamo forse balene anomale finite fuori rotta?


Crash dive!


“Le condizioni marine non sono buone, non si può andare a cercare gli squali (a 22 miglia nell’Oceano, ndr). Se volete facciamo una immersione nel canale tra Pico e Fajal.” dice Martin con un sadico sorrisetto.

Accettiamo tutti.Tempesta_Azzorre

Così, caricate le attrezzature e saliti a bordo, sotto un cielo grigio da tempesta perfetta, Justin guida il gommone verso l’uscita del porto. L’acqua sembra melassa, ma appena superiamo il fanale di segnalazione, vento e onde iniziano ad arrivare da tutte le parti. I fondelli delle bombole mettono a dura prova il pagliolato del gommone, le pinne fanno concorrenza ai pesci volanti e noi subacquei sembriamo turisti sul toro meccanico al Lunapark…yooooohooooo! Ecco cosa intendeva Martin con il suo sorriso sadico: il rock & roll era dietro l’angolo, ma noi di Stobenenelblu l’avevamo già capito!

Durante il breve tragitto penso a come indossare jacket e pinne senza finire fuori bordo, ma non mi viene in mente niente. Alla fine, in qualche modo, raccattiamo e indossiamo tutti i pezzi…

Ci buttiamo e pinneggiamo a capofitto verso il cappello della secca Baixa do Sul  a circa 7 metri per iniziare il solito giro a spirale intorno al pinnacolo, prima a scendere e poi a salire. La corrente si sente ed il moto ondoso pure. Le onde si avvertono fino ad una profondità pari a metà della loro lunghezza (d’onda appunto). Murene, scorfani ed altra fauna costiera più qualche barracuda sono stati gli avvistamenti, per il resto non mi ricordo quasi niente, intento com’ero, come la gran parte dei subacquei, ad arrampicarmi sugli scogli per contrastare la corrente ed evitare i vermocani (a migliaia sulle rocce della secca).

Dopo 45 minuti di immersione risalgo con un primo gruppetto, un tedesco a cui si è rotto il manometro finisce l’aria e si attacca alla guida.

In superficie è ancora peggio, mi tolgo il jacket e Justin lo salpa in un attimo.

Cicatrici di schiuma bianca contenevano i marosi che sovente si abbattevano sul fasciame (questa è un po’ alla Melville ma mi piaceva anche se fuori luogo…..anche perchè i gommoni non ce l’anno il fasciame!). Comunque… il beccheggio rende veramente impegnativa la salita a bordo, io ci riusco al terzo tentativo, Raffaele al secondo. In acqua una guida cerca invano di spingere verso l’alto una ragazza svizzera, senza troppi convenevoli le afferro l’avambraccio e l’incavo del ginocchio e la salpo sul tubolare. Arriva il mal di mare ma resisto. Dopo un po’ anche gli altri sono a bordo e Justin dirige alla massima velocità casa. Visto da fuori il gommone deve sembrare un sasso piatto lanciato da un ragazzino che rimbalza sull’acqua.

Superiamo il fanale e come per incanto torna la quiete. L’ormeggio è fluido, il gommone si muove preciso come se fosse su di un binario invisibile, nessuno parla. Lo stesso cielo grigio ci accompagna mentre trasportiamo le attrezzature verso il Cetacean Watching Azores per il rituale del risciacquo. E’ curioso vedere dei subacquei vestiti di tutto punto  fermi sulle strisce pedonali per raggiungere il diving.

E così, un po’ tuonati ma pieni di Oceano, il mio socio di mare Raffaele alias RockZen ed io ci incamminiamo sulla strada polverosa che percorriamo quasi ogni mattina. E che stavolta ci porterà verso il Baia Da Barca, dove a bordo piscina ci aspettano le nostre allegre famigliole.

Queste sono le Azzorre ragazzi!


Un metro e mezzo


Finalmente abbiamo deciso.

Finalmente abbiamo iscritto la nostra bimba di due anni al corso di acquaticità. Non è mai stata in acqua prima d’ora, se non nella quotidianità di nemmeno due spanne d’acqua nella vasca da bagno.

Io non so nuotare, ma l’accompagnerò più che volentieri, tanto lì tocco e c’è l’istruttrice, e non è questo che mi blocca e che mi fa paura: bensì l’idea di mettere la testa sotto o di non toccare il fondo con i piedi.

Ci prepariamo in fretta nello spogliatoio e raggiungiamo la vasca dedicata, io con la mia sirenetta in braccio, con addosso il suo costumino intero fucsia e i suoi occhioni grigioverdi spalancati e curiosi che osservano un mondo nuovo, un ambiente mai visto, dove ci sono solo grandi vasche azzurre piene d’acqua e, a quell’ora del sabato, bambini di varie età ovunque, che sguazzano felici o che già sfrecciano nelle corsie come piccoli campioni.

Solo per il fatto che ci siano così tanti “bimbi”, come continua a farmi notare lei con la sua vocina stridula, indicandoli con il dito, so che è già felice ed entusiasta. Eccola, la nostra vasca. E’ quadrata, e sarà circa tre metri per tre. Ci sono già dei genitori in acqua e con loro, ovviamente, i loro piccoli pesciolini. Noto subito che sono quasi tutti più piccoli di lei. Inizio a temere ancora di più che lei possa avere paura, che mi si attacchi al collo, e che nella migliore delle ipotesi passeremo quella mezz’ora a mollo appiccicate l’una all’altra. La mia espressione evidentemente mi tradisce, perché qualcuno ci nota: dalla vasca mi raggiunge un sorriso raggiante, e la mano dell’istruttrice ci saluta dandoci il benvenuto e ci fa cenno di entrare.

Mi avvicino alla scala, la mia piccola in braccio è parte di me, e penso solo a camminare lentamente per non scivolare. Un gradino. Un altro. L’acqua è calda e accarezza dolcemente la pelle invitandoti a proseguire. Un altro gradino e l’acqua già ha superato le ginocchia. L’istruttrice è lì vicino, in acqua ad  aspettarci, sorridente e rassicurante nel il suo costume rosso che mi ricorda subito una nota serie televisiva.

Un altro gradino, e l’acqua mi arriva alla vita. E mi accorgo con malcelato stupore che di gradini ce ne sono ancora due. Mi assale una sorta di panico, ma cerco di controllarmi per non trasmettere paura alla bambina, che in realtà se ne sta lì in braccio a me tranquilla e beata come se io stessi facendo le scale di casa. Scendo ancora di un passo: sono anni che non entro nell’acqua così alta, e ho la sensazione di essere schiacciata in una stanza troppo piccola, come se all’improvviso io fossi diventata un gigante. La mia mano non si stacca dalla sbarra delle scale, e prendendo coraggio procedo ancora, ritrovandomi finalmente a toccare il fondo. Stacco la mano.

E’ una sensazione stranissima, come se la gravità non esistesse più. L’acqua è alta un metro e mezzo, e mi arriva quasi alle spalle. E’ caldissima e avvolgente, come una carezza, un massaggio, un mantello liquido che azzera il peso del mio corpo. Non sento nemmeno più i dodici chili della mia piccola sul braccio.

Mentre cerco di concentrarmi e riprendere il controllo momentaneamente perso, la nostra istruttrice si presenta e subito mi dice cosa faremo: devo fare il giro della vasca, far prendere alla piccola i giochi galleggianti, assecondarla e lasciare che prenda confidenza con l’ambiente. Poi lei si avvicinerà ancora e mi dirà cos’altro fare.

Prendo un bel respiro, le sorrido, e inizio a camminare lentamente. E mi rendo conto che passo dopo passo il mio corpo si abitua a quella nuova dimensione, mi sento più tranquilla. E la mia bimba? La guardo incuriosita. Sorride felice. Allunga da subito le sue manine verso le decine di animaletti di gomma che galleggiano colorati, li afferra, ne lascia andare uno per prenderne un altro. Una stella marina di gomma fa il giro della vasca insieme a noi, spinta in avanti dalle piccole dita della mia bimba serena e coraggiosa. La sento rilassata, senza la minima ombra di timore o reticenza. Ha degli schizzi d’acqua sulla faccia, causati dalle sue stesse manine smaniose, e la vedo più bella e solare che mai, con quelle goccioline sulle guanciotte rosa.

E’ lei, che da sicurezza a me.

Intorno a noi gli altri piccoli compagni di corso hanno lo sguardo altrettanto sereno e sorridono mettendo in mostra la dentatura ancora incompleta. Chi nuota con i braccioli, chi riemerge facendo un’espressione stupita, spalancando gli occhi con le ciglia imperlate di gocce d’acqua, per essere poi abbracciati con orgoglio dalla mamma o dal papà. Getto un’occhiata al bordo vasca, e dico alla mia piccolina di fare lo stesso: c’è papà che ci guarda, e dai suoi occhi capisco che si è accorto anche lui che la paura non è entrata in vasca con noi, che la nostra piccina è serena e felice. Mi rilasso definitivamente, e inizio a prenderci gusto.

Quella mezz’ora è una parentesi da tutto, è un’oasi di gioia pura, mentre ripetiamo gli esercizi-gioco che aiuteranno la mia bimba a prendere confidenza con il mondo acquatico: dal tenerla sotto le braccia e lasciare che si allunghi distesa a pelo d’acqua, con il suo faccino impegnato e in cerca di approvazione rivolto verso di me, dal farla scivolare su un tappetone a bordo vasca che finisce dritto in acqua, e quanto ride, quando arriva giù e finisce in un tuffo, sempre sostenuta dalle mie mani. E il piccolo annaffiatoio colorato, che da quando l’istruttrice le ha fatto vedere come si fa, lei non smette più di riempire e rovesciarsi in testa, tutta da sola, lasciando che l’acqua le coli sul viso, nelle orecchie. Mi stupisce: non pensavo davvero che al contrario di me lei si sentisse così a suo agio nell’acqua, senza patire della mancanza di un contatto solido sotto ai piedi, senza curarsi dell’acqua in faccia e sulla testa, come fosse veramente un pesciolino. L’istruttrice mi dice di essere contenta, perché la vede rilassata e serena, ed è sicura che non avrà problemi ad imparare a nuotare. Le dico che io invece non ho mai imparato e che ho sempre avuto  paura: e in quel momento, parlando con lei, vedendo lei che mi ascolta mentre galleggia come fosse la cosa più naturale al mondo, vedendo lei  così parte di quel mondo a me sconosciuto, mi accorgo di quanto ci si dimentichi che le paure possono davvero essere superate. Che si ha paura di ciò che non si conosce, e mi sembra che quel giorno anche io ho fatto amicizia con l’acqua. Ho fatto anche io l’acquaticità, con più di trent’anni di ritardo. Mi viene da ridere, ma mi sento davvero un’altra. E la mia piccola sguazza felice e continua a giocare.

Quando è ora di uscire, allora sì che la vedo titubante. Vorrebbe rimanere ancora. Come darle torto, rimarrei volentieri anch’io in quel posto quasi magico. E’ stata una scoperta anche per me. Un metro e mezzo d’acqua, tutti i miei timori pregressi lasciati fuori e mai più ritrovati, la voglia di sentirmi anche io galleggiare, di imparare come fare, perché non è mai troppo tardi, per nulla. Risalgo le scale, e mi sembra di uscire completamente con un solo passo, perché il contatto con l’aria rinfresca subito la pelle bagnata e restituisce a tutto il suo giusto peso, così che mi sembra di avere le gambe di cemento, e la mia piccola sirenetta sembra pesare il doppio di quanto ricordavo. Tiene ancora stretto l’annaffiatoio in mano, ma fuori dall’acqua non è più magico e se ne accorge anche lei. Lo facciamo ricadere dentro, nella vasca, così farà magie per i pesciolini e le sirenette del corso successivo. Saluta la piscina, le dico.

E mentre ci avvolgiamo negli asciugamani e ci allontaniamo strette l’una all’altra, felici e tutto a un tratto leggere come piume, penso che non vedo l’ora della settimana successiva, e di ritornare in acqua. Lei non me lo ha detto, non parla ancora così bene da mettere insieme una frase intera: ma sono sicura che ha pensato la stessa cosa.


Lo spirito di Bergeggi


Alla partenza un signore anziano alto, quasi quanto me, e magro, ha attirato la mia attenzione.

Aveva scarpe da barca lise ed  un paio di bermuda azzurri . Un k-way ed un cappellino da pescatore a proteggergli la testa dalla sottile pioggerellina che cadeva.

Mi sono detto “cosa ci fa quest’uomo in mezzo a quello che di li a poco si trasformerà in una tonnara.. rischia la vita!”

Ma lui, calmo, era leggermente ricurvo, non solo per l’età: come se reggesse qualcosa. Osservando meglio ho visto che teneva un accappatoio sulle spalle di qualcuno. Probabilmente la moglie, anche lei quasi ottantenne, con cuffietta di Swim The Island numerata e chip alla caviglia.

Alla partenza la vecchietta si è scrollata di dosso l’accappatoio, lasciandolo nelle mani del signore, e si è gettata in acqua con tutto l’impeto che l’età le concedeva.

Nella confusione post-gara non ho più rivisto nessuno dei due.

(…Sì, ma pensiamo stiano bene – Nota di Rockzen – se no i lettori si preoccupano…) 


Buona pesca


Finalmente ci siamo! Dopo tante domeniche di pianificazione terminate in un nulla di fatto, dopo tante volte in cui l‘umore andava a mille e poi a zero perché rimandavamo,  dopo tante volte in cui mi sono immaginato come potesse essere tutto, nei minimi dettagli, fomentato dalla lettura dei fascicoli settimanali della Enciclopedia del Mare di Jacques-Yves Cousteau che compravo con la mia paghetta domenicale di 350 Lire, finalmente, mio padre mette la sveglia alle 6. Si va a pesca con zio Gennaro.

Zio Gennaro non fa il pescatore, ma abita a Pozzuoli ed ha una barchetta in vetroresina di colore rosso con un Volvo Penta da 6 cv, ai miei occhi una flotta baleniera ed io il capitano Akab.

Inutile dire che ho passato la notte in bianco, con il mal di stomaco dall’eccitazione.

Quando ci svegliamo è ancora quasi notte ma non troppo. Quel grigiore scuro che tende lentamente a schiarirsi al pari dei pensieri che dapprima confusi tendono poi a prendere lucidità a mano a mano che il sole sorge.

Dopo un’abbondante colazione fatta sul gelido piano in marmo della nostra cucina ci mettiamo in viaggio. La tangenziale è deserta e l’enorme sole che stà per nascere ci guida in poco tempo verso Pozzuoli dove carichiamo Zio Gennaro e Procolo.

Arrivati al porto, si fa per dire, scarichiamo l’attrezzatura: il serbatoio rosso con tubo e “pompetta” neri, una tanica di carburante supplementare, un paio di borse con panini ed asciugamani. Siamo a Baia, al Cimitero delle navi, un piccolo bacino nel quale vengono arenate le navi in disarmo prima di essere smantellate e rivendute a pezzi.  Il risultato è un budello emerso (e sommerso) di prue maestose, murate e timoni mezzi fuori e mezzi dentro l’acqua. Alcune barche sono ormeggiate in mezzo agli scafi, altre, tra queste quella di Zio Gennaro, sono oltre le navi. E’ mattino presto e l’aria è fresca, non si vede nessuno tranne un vecchietto in lontananza che con una remata lenta ma efficiente punta verso di noi. Io nel frattempo sgattaiolo in giro a curiosare e mi imbatto in una gabbia con un uccello enorme, ha un becco ricurvo e lunghi artigli “E’ nu’ falc’ pellegrin, l’amm’ truvat ca scella sp’zzat.” mi apostrofa una signora, poi “Alfonso ! Alfonso!” mi chiamano, si và. Saliamo a bordo del natante del nostro Caronte e dopo qualche minuto trasbordiamo sulla barca di Zio Gennaro. Ci sistemiamo, colleghiamo il serbatoio e partiamo, destinazione Allevamento di cozze di Baia.

Appena doppiato il promontorio di XXX caratterizzato da una bellissima grotta passante nel tufo che protende verso il mare a proteggere la baia, (sono rocce antichissime al cui interno vivono ancora testimonianze di civiltà millenarie come le gallerie di fuga scavate in epoca romana), ci appare una distesa di bidoni rossi e blu dai quali protendono verso il fondo lunghi filari di cozze, bocconi succulenti per l’intera fauna marina ed umana del luogo.

Ormeggiamo ad uno di essi, gettare l’ancora sarebbe impossibile per una barchetta come la nostra, il fondo nel Golfo di Napoli arriva a 700 metri e dove siamo supera tranquillamente i 60. Caliamo i bolentini ed aspettiamo. Il mare è calmo ed il sole piacevolmente caldo.

La pesca nell’allevamento di cozze non è mai un granchè, bavose occhiute e pinterrè sono le prede più comuni, pescetti da zuppa poco pregiati nulla al cospetto di sua maestà il pagello o sua altezza l’orata. Mio padre è il primo a sentire la toccata, dà uno strattone ed inizia a recuperare, il pesce sembra grande per quanto tira ma in realtà non lo è. Le bavose occhiute (Blennius ocellaris Linneaus) infatti, dopo aver abboccato, cercano di aumentare la resistenza all’acqua allargando le pinne ventrali che nel loro caso sono molto avanzate e grandi rispetto alla coda, questo consente loro di opporre una resistenza sproporzionata rispetto alla mole che hanno e sembrare quindi più grandi. Salpata a bordo Zio Gennaro l’agguanta con un’asciugamani, la slama e la mette nel secchio. Si continua, anche lui ne prende una ed andiamo avanti così per un bel pò fino a riempire metà secchiello. A ridosso di mezzogiorni però decidiamo di cambiare posto e tecnica di pesca, ma prima di andare voglio fare un tuffo.

“Guarda che qua è profondo” mi dice mio padre. Io mi sporgo oltre il bordo agguantandolo con le mani e sporgendovi oltre la testa quasi a sfiorare l’acqua a causa del rollio provocato dallo spostamento del mio corpo. In effetti la superficie è di un blu scuro impenetrabile ed anche il filone di cozze che si dipana dal bidone al quale siamo ormeggiati scompare dopo appena qualche decina di centimetri. Riporto il busto all’interno della barca, provocando un rollio di pari intensità in direzione opposta ma mi voglio buttare lo stesso. Prendo le mie pinne nere, della Rondine, totalmente in caucciù credo, le bagno e le indosso con difficoltà. Goffamente mi sposto a sinistra scavalcando il bordo e mi butto. Mi iperventilo, la vecchia scuola di Enzo Maiorca, e faccio la capovolta. Ovviamente senza maschera non vedo niente, tastando a caso trovo il filone di cozze lo agguanto e cerco di utilizzarlo per guadagnare qualche metro. Il tentativo è misero, la mia resistenza a trattenere il fiato quasi inesistente e  le mani sono tute tagliuzzate dai bivalvi. Riemergo dopo una manciata di secondi e risalendo a bordo con qualche difficoltà mi tolgo le pinne mentre il Volvo Penta ci spinge faticosamente verso Trentaremi mentre mio padre prepara la valanzola. Questo tipico strumento di pesca che ero andato a comprare con lui in un negozio di sub al porto di Pozzuoli per seimila lire, consiste in un grosso retino dal diametro di circa un metro. Lo si riempie di ricci e granchi schiacciati, si aggiungono delle pietre per tenerla giù e la si butta a mare. Una volta sul fondo il profumo dei ricci attira i pesci, allora con uno strattone si cerca di intrappolarli e poi si salpa la valanzola il più presto possibile.

Non mi ricordo come ci siamo procurati i ricci ma quando abbiamo salpato il nostro attrezzo ricordo che era quasi vuoto, solo una piccola bavosa che abbiamo rigettato in mare ed un pinterrè che invece abbiamo tenuto. Andiamo avanti così per un bel pò, tra recuperi di valanzola quasi vuota, qualche panino da sgranocchiare e qualche bagno in un’acqua che ai tempi era limpida.

Nel pomeriggio decidiamo che è ora di mettere la prua verso casa. Zio Gennaro afferra la cima dell’ancora ed inizia a salpare, ma l’ancora non si muove. Molla tutta la cima, lascia scarrocciare la barca e riprova, ma niente. Allora mio padre ai remi cerca di variare l’orientamento dalla barca rispetto al punto presunto in cui si trovava l’ancora, ma ancora nulla, sembra saldata al fondo. Dopo circa 30 minuti di tentativi ci decidiamo a tagliare, ma proprio mentre la cima inizia a perdere i propri contorni di nitidezza iniziando ad inabissarsi, mio padre immerge tutto il braccio in acqua, l’afferra e tira! Recupera molto di più della lunghezza del proprio arto e poi ancora di più, l’ancora si era liberata e riusciamo a salparla. “Ci abbiamo rimesso una cima” dice Zio Gennaro, “Si ma meglio la cima che l’ancora!” replica mio padre e scoppiamo tutti a ridere. Zio Gennaro si sposta a poppa posizionandosi davanti al VolvoPenta, agguanta la cima dì avviamento e tira all’indietro. Il risultato è che la mezza cima compresa di maniglia gli rimane in mano, l’altra metà si riavvolge nel motore, come una vipera che colta allo scoperto si affretta a rintanarsi nel primo buco che trova. Incredibile, due sfighe di seguito così non si erano mai viste, ora siamo senza motore. Anche smontando la calotta del Volvo Penta ed avvolgendo la cima residua sul volano non si riesce ad avere abbastanza grip per farlo accendere e dopo qualche tentativo rinunciamo. A quel punto non restano che i remi. Procolo il figlio di Zio Gennaro ed io, siamo fuori gioco, io avevo circa 12 anni e Procolo un paio in meno, zio Gennaro è tachicardico, non resta che mio padre, che essendo cresciuto a Posillipo dove ha trascorso da bambino lunghe estati al mare aveva i remi nel dna. Si posiziona sulla panca, li agguanta ed inizia a vogare spalle a prua voltandosi di tanto in tanto per verificare la presenza di eventuali ostacoli che gli segnalavamo e per controllare la traiettoria. Fa caldo.

Dopo un bel po’, non mi ricordo quanto, scorgo le sagome arrugginite delle navi in disarmo messaggere dell’imminente conclusione della nostra bellissima giornata che avevo atteso per così tanto tempo e mi rattristo un pò. Non vorrei più scendere dalla barca e propongo di salire a bordo di una nave arrugginita per esplorarla al crepuscolo con una torcia, ma niente da fare, si torna a casa. Scarichiamo l’attrezzatura sulla barca del vecchietto ed in poco tempo siamo in macchina, accompagniamo Zio Gennaro e Procolo a casa e noi ci avviamo verso la nostra dove ci aspetta mia madre.

Io ancora eccitato per l’avventura appena vissuta ed orgoglioso del misero pescato come se fosse una ricciola da 50 Kg., corro verso mia madre che è già in ginocchio a braccia aperte. L’abbraccio di un genitore è il porto più sicuro al mondo, mamma, mamma! e le racconto tutta la giornata ….e poi mamma sono successe un sacco di sfortune, e Laura ci aveva anche augurato buona pesca!”

Poi da grande ho capito che l’infausto augurio è spesso foriero di un po’ di sana sfiga a prescindere dalle intenzioni di chi lo profferisce!


Traina ai delfini


L’Oman è un eccellente osservatorio per i cetacei. Lo apprendo dal mio ultimo acquisto, “Whales and dolphins of Arabia”, di Robert Baldwin. A quanto dice il libro, ben scritto, c’è veramente di tutto: balenottere comuni, megattere, svariate specie di delfino, focene…. L’Oman sembrerebbe un paradiso del mammifero marino. E di chi lo vuole osservare, anche se i cetacei sono di solito estremamente schivi con i subacquei.

E così gli Zen al gran completo affittano barca con annesso barcaiolo per una spedizione alla ricerca di qualche tipo di cetaceo. Si parte di buon mattino.

Il marinaio è un ragazzo omanita che conosce una ventina di parole di inglese. Noi conosciamo tre parole tre di arabo, quindi la conversazione equipaggio-clienti  non è delle più brillanti. A bordo, viveri di conforto vari e macchina fotografica. E l’attrezzatura da apnea. Anche se, teoricamente, bisognerebbe osservare i cetacei dalla barca, FUORI DALL’ACQUA. Ma io preferisco essere pronto ad ogni evenienza: mica si può rischiare di essere colti impreparati di fronte a qualche incontro eccezionale, no? E poi ho un piano abbastanza strambo, che giace latente da anni nella mia testa di maniaco-ossessivo del mare e che potrebbe trovare realizzazione proprio oggi.

Si punta verso il mare aperto. Guardiamo speranzosi la superficie del mare appena increspata dal vento, come se da ogni onda dovesse sbucare Moby Dick. Ma, almeno per ora, niente.

Dopo un po’che vaghiamo nel mare omanita, vediamo una grande massa indistinta e tondeggiante che sbuca in superficie, ad una trentina di metri da noi. E’ qualcosa di semi-sommerso, scuro e lucente, che ondeggia placidamente tra le onde. Grido, indico, il barcaiolo non capisce l’inglese, ma è sveglio, rallenta. Aguzziamo la vista. A me sembra la testa di un globicefalo: li ho già visti, e a volte in effetti stanno così, con la testa a melone che sbuca parzialmente dall’acqua, a farsi dondolare pigramente dalle onde. Ci avviciniamo cautamente con la barca e mi rendo conto che non è la testa di un globicefalo, ma continuo a non capire cosa sia quella massa scura che ondeggia in superficie.


Poi di colpo capisco: due enormi tartarughe verdi che si stanno accoppiando. E noi, micidiali rompiscatole, siamo arrivati sul più bello. Valuto se entrare in acqua, poi mi dico che tutto ha un limite, e decido di lasciare stare le due tartarugone dal corpo verde scuro. La coppia, per non sbagliare, si immerge leggermente, nuotando in direzione opposta a noi. Al loro posto avrei fatto lo stesso.

Riprendiamo la ricerca dei cetacei. Marco inizia a stufarsi: la barca salta un po’ sulle ondine, non è il massimo della comodità. Cerco di distrarre Marco raccontandogli dei vari cetacei, dicendogli che deve stare attento e scrutare la superficie del mare per non perdersi un’apparizione fugace, bla bla bla. Per ora tiene.

Il barcaiolo intanto chiama via radio altri colleghi, per capire se ci sono branchi di cetacei da quelle parti. Pare di sì, dai suoi gesti. Partiamo decisi verso nord-est. Dopo un bel po’, quando le speranze stavano evaporando, vediamo le prime pinne dorsali che bucano la superficie: delfini. Pochi. Distanti. Non si capisce di quale specie. Ci muoviamo in zona con il motore al minimo.  Ne vediamo altri, poi altri ancora: a poco a poco si rivela un branco enorme, sono centinaia. Ora sono sotto la barca, poi davanti, emergono a gruppuscoli. Sono delfini comuni. Si chiamano così, ma non è che siano poi così tanto comuni… Sono molto belli: il corpo è grande, bruno, striato lateralmente di bianco e marrone chiaro, con un tocco estroso dato da qualche pennellata di nero.

Adesso i delfini sono dappertutto, sbucano da ogni lato della barca. E allora decido di attuare rapidamente lo strambo piano latente nella mia testa.  Annodo una cima di qualche metro di lunghezza all’anello di prua, mimo un gesto al marinaio (che annuisce, bah, chissà che cosa avrà capito), mi infilo la maschera e, tenendo l’altro capo della cima in mano, mi tuffo in mare sotto lo sguardo perplesso di moglie e figlio. E mi faccio trainare sott’acqua, stile esca per la pesca a traina al marlin.

Sotto di me, si apre un mondo: l’acqua è molto limpida e davanti, sotto, di fianco a me, è pieno di delfini che nuotano accompagnando l’imbarcazione. Sono molti di più di quanto non si immagini osservando quelli che appaiono in superficie. Qualcuno, più curioso, aggiusta la rotta per passarmi vicino ed osservarmi, a volte girando leggermente la testa verso di me. Il fatto che io mi muova con la barca vince la loro diffidenza, proprio come mi aveva detto, svelandomi un segreto del mestiere, un videoperatore che aveva lavorato per il National Geographic.

Sento i  loro richiami, i loro suoni mi avvolgono. Il mare è letteralmente brulicante di delfini. Li vedo anche giù fino a trenta-quaranta metri di profondità. Sensazioni fortissime.

Dopo un po’, forse una decina di minuti, i delfini spariscono. E io torno in barca. Felice: quella vecchia idea balzana di farsi trainare da una barca non era per niente una bufala.


Il sogno di Alfonso


“Mi fai una foto così quest’estate alle Azzorre?” (disse speranzoso il mio amico Alfonso alias Aqua2O…)


Il sorriso dello squalo zambesi


Ultimo giorno in Oman. Il classico velo di tristezza su tutto, anche se la luce è già vivida e il cielo è limpido in questo inizio di mattinata.

Noi, la famiglia Zen, siamo lì a bighellonare nei pressi del bagnasciuga.

Sono contento: mio figlio Marco ha familiarizzato in acqua con qualche piccolo esemplare di squalo pinna nera spintosi fin quasi sul bagnasciuga per papparsi un grosso cefalo. Il cefalone è stato ferito da uno squalo ed è finito sulla spiaggia. Prontamente raccolto e ributtato in acqua da Elisabetta, ha attirato nuovamente gli squalotti che già lo avevano cacciato. Vedere mio figlio che in acqua nuota dietro gli squalotti mi fa pensare che forse avremo un futuro in mare insieme…

Decido di dedicare una porzione significativa della mattinata ai “miei” squali pinna nera che vivono all’imbocco del fiordo (leggi). Mi ci sono affezionato. Forse si tratta di una popolazione stanziale: tutti i giorni sono andato a trovarli e li ho quasi sempre avvistati, anche se in alcune occasioni erano un gruppetto sparuto.

Vado nel solito posto e dopo una tranquilla ventilazione mi apposto in apnea sul fondo. Poco dopo arrivano. Sono in numero maggiore delle altre volte. Davvero tanti, una ventina. E ci sono molti esemplari grossi, lunghi oltre due metri. La maggior parte sono maschi, mentre solitamente predominavano  le femmine. Mi domando se si tratti della stessa popolazione osservata tutti i giorni nelle due settimane passate lì. Penso di no. In mezzo agli squali che mi ruotano intorno, compare un’aquila di mare, anche lei curiosa, poi un’altra subito dietro.

Che giornata! Riemergo. Recupero. Mi preparo. Respirone. Scendo. Mi apposto dietro la solita roccia. Gli squali pinna nera sono subito pronti a fare carosello. Mi godo quella vista privilegiata: una popolazione ampia e di grandi dimensioni di squali pinna nera, poco diffidenti, un esemplare dietro l’altro che mi sfila davanti, di lato, dietro (ehh ogni tanto un’occhiata dietro la dò, alla fine sono dei predatori, non si sa mai).

Giro lo sguardo verso destra e lo vedo: grosso, corpulento, colorazione scura, è un grosso squalo zambesi, nessun dubbio. E’ ancora lontano, ai limiti della visibilità, che oggi è miracolosamente di 15-20 venti metri. La mia apnea si fa meno rilassata. Stimo che lo squalone sia sui tre metri. E nuota dritto verso di me, senza esitazioni.

Si avvicina. Distinguo bene il muso da cattivo. La massa del corpo è veramente notevole. Mi domando se devo preoccuparmi. E mi rispondo che devo stare tranquillo, come sempre.  Mai avuto problemi con gli squali? Naaahhh! Ma il bestione si avvicina ancora, in un attimo arriva a venti centimetri da me, davanti alla maschera: porca vacca che sorriso!!! Ho un sussulto. Del tutto involontario, perché vorrei essere tranquillo, ma non lo sono mica tanto. Al mio brusco scatto di nervi lo squalo reagisce come se fosse stato colpito da una scarica elettrica: inverte letteralmente la rotta e se ne va da dove era venuto, a velocità sostenuta.

Sono basito. Faccia a faccia con uno zambesi, che se l’è filata al primo imprevisto! Risalgo dall’apnea lunghissima. Recupero respirando dallo snorkel, fatico a trovare qualla condizione di pace mentale che prelude a buone apnee. Battito del cuore accelerato, sono un po’ ansioso e guardo di continuo il fondale, in tutte le direzioni. Urca, uno zambesi grossissimo! Non sono tranquillo. Va bene avere confidenza con gli squali, va bene stare più a mio agio sott’acqua che fuori, ma quello era pur sempre un grosso squalo zambesi, probabilmente più confuso di me… insomma… Ritorno sott’acqua per vedere se torna. Niente: arrivano i pinna nera, ma dello zambesi nessuna traccia. Mi sposto, riprovo: ancora niente. Dopo una decina di minuti, decido di andarmene: magia finita.


Non comportatevi da prede: faccia a faccia con lo squalo tigre


I sub osservano perplessi Walter Bernardis mentre esordisce raccomandando: “Don’t behave like a pray” – “Non comportatevi come prede”.

E’ il briefing, stiamo per entrare nelle acque sudafricane dell’Oceano Indiano nella speranza di incontrare qualche squalo tigre.

Sono oltre dieci anni che Walter, fondatore e boss di African Watersports,  si immerge con i tigre, rigorosamente senza gabbia. Ha ormai le idee chiare: “Lo squalo tigre cerca di collocarvi sulla SUA scala di valutazione: ad un estremo c’è il predatore, all’altro la preda. Se vi identificherà come predatore, scapperà. E non è quello che vogliamo. Se invece vi identificherà come preda, vi attaccherà. Quindi voi dovete confonderlo, stando verticali in acqua e producendo bolle, così lui vi gira intorno per capire cosa siete. In questo modo possiamo osservarlo per bene. Non perdetelo mai di vista: se si avvicina di soppiatto alle spalle può diventare pericoloso. Se si avvicina troppo, urlate nell’erogatore, e vedrete che lui si allontanerà”.

A questo punto, noto perplessità sui volti di noi sub: forse ci domandiamo tutti cosa ci facciamo lì, qualche miglia al largo della costa di Kwazulu Natal, con mare formato e sanguinolente e maleodoranti carcasse di tonno e ricciola appese fuori dalla barca ad attrarre squali.

Arrivare qui non è stato banale: sveglia alle 5, gommonata di mezz’ora con partenza rocambolesca dal delta del fiume; è il famoso “boat launch” con il gommone che prende velocità nelle acque del fiume e supera di slancio i cavalloni oceanici, tra gran salti. Un’esperienza…

Ora si vedono molti dorsi e pinne di squalo fendere le onde, nervosamente: lì sotto c’è un bel movimento, niente da dire…

Anche io e la consorte Villa ci domandiamo se sia proprio un’idea brillante quella di buttarsi lì in mezzo a quell’orda di squali, senza gabbia. Io amo gli squali, ho fatto una montagna di immersioni con squali di ogni genere, però l’istinto atavico tira dall’altra parte. Ma ci fidiamo di Walter e della sua esperienza. Del resto, ci siamo sparati 26 ore di aereo apposta per essere qui, ora.

Bombole in spalla, controllo finale dell’attrezzatura, mente concentrata e via, in acqua!

Praticamente atterro sulla schiena di uno squalo pinna nera oceanico, un carcharhinus limbatus: sono ovunque, ce ne saranno 60, 80, forse di più, chi può dirlo. Ci urtano, ci passano tra le gambe. Bestie irruenti di due metri e mezzo, fa un po’ impressione trovarseli addosso; eppure è evidente che ci ignorano: pensano solo alla pastura, girano veloci alla ricerca di brandelli di pesce. In mezzo, più guardingo, c’è anche qualche “dusky”, lo squalo bruno (carcharinus obscurus).

Noi ci mettiamo in posizione, a qualche metro dall’esca principale: un grosso cestello di lavatrice, stipatissimo di sarde congelate e mantenuto ad una decina di metri di profondità da una grossa boa. L’acqua oggi è limpida e il carosello di squali è spettacolare. Ma siamo tutti in attesa dell’attore principale.

Ed eccolo: lo squalo tigre. Nuota lento, sinuoso, è un animale di quattro metri e passa. Si avvicina guardingo al cestello ricolmo di pesce. Ci gira intorno un po’ di volte prima di decidersi a dare un morso. Quando lo fa, ammacca il cestello: una forza della natura.

Dopo un po’ arrivano altri due tigre. Passano sornioni tra i subacquei, con aria curiosa e apparentemente svogliata. A un certo punto un tigre mi punta contro, nuotando molto lentamente: io mi impongo di stare bello tranquillo… ora gira…gira… ma quando il tigre è a 30 centimetri dalla mia faccia (sic) ritengo che sia il caso di seguire le istruzioni di Walter: pianto un urlaccio nel boccaglio dell’erogatore. E, senza perdere la calma, lo squalo vira leggermente, mantenendo il suo sguardo su di me, con un espressione che sembra dire: “Questo qua è completamente fuori di testa”.

Dopo oltre un’ora, a guardare e riguardare, le bombole sono belle vuote e tocca tornare a galla. Siamo tutti euforici per l’eccezionale spettacolo (e per non essere stati catalogati come “preda” dal tigrone…). Si torna a terra ebbri di immagini mentali. Ora i pensieri sono  solo alla prossima immersione con i “tigers”. E al leggendario BBQ sudafricano di Walter…


L’ancora di Nettuno


L’ancora di Nettuno

Siamo in Turchia, il paesaggio è tipicamente mediterraneo con vegetazione fitta che sfiora un mare blu cobalto, una miriade di calette e qualche isola sperduta, alcune di queste con imponenti rovine di templi. Sembra il mare degli dei.

Durante le soste della navigazione mi diverto a fare un po’ di snorkeling ma l’acqua è caldissima e di pesci nemmeno l’ombra così in mancanza di fauna da osservare decido di fare un pò di apnea pura. Recupero un paio di pinne ed una maschera, il solcometro del comandante diventa il mio “cavo improvvisato” ed eccomi ad andare su e giù nello spazio liquido. Il fondo è tra i 16 ed i 18 mt., nulla di eclatante ma io sono molto soddisfatto perché riesco a raggiungerlo in scioltezza aggiungendo anche delle apnee statiche sul fondo di circa 15 secondi. Il comandante mi osserva ed osserva anche gli altri ospiti della barca impegnati in tornei di tuffi a bomba, nuotate e sedute di tintarella tra venditori di kebab che con i loro barchini si aggirano proponendo appetitose focaccine appena cotte. All’ora di pranzo siamo tutti richiamati a bordo e poi ripartiamo per la destinazione in cui passeremo la notte, una baia riparata nei pressi di Kash.

Quando vi giungiamo, appena dopo il tramonto, i colori sono molto diversi. Tutto sembra avvolto da una coltre grigiastra che smorza i toni, come se il sole avesse dato il segnale a tutti gli elementi della natura e questi si fossero ritirati all’unisono per il meritato riposo notturno ed anche noi ci prepariamo ad ormeggiare, alla fonda.

Il comandante, con il figlio 13enne perfettamente in grado di eseguire tutte le manovre di bordo, prepara la barca per la notte. Sara ed io siamo in cabina a prepararci per la cena e prua al vento ascoltiamo il familiare clangore della catena dell’ancora che viene risucchiata dall’acqua quasi a cercare un contatto rassicurante con il fondo del mare, come un bambino che all’imbrunire tende la mano alla mamma in cerca di protezione. Ad un tratto il clangore finisce e si odono delle voci concitate, sembrano insulti reciprochi, ma ovviamente in turco quindi non ci capisco niente. Raggiunta la coperta il comandante ci dice nel suo broken english che qualcuno si è dimenticato di fissare l’altro capo della catena, quindi sia catena che ancora giacciono ora placide sul fondo del mare. Alla faccia del contatto rassicurante! uno scippo in piena regola! ad opera di Nettuno! Caliamo rapidamente un’ancora di riserva ma dallo sguardo capisco che il comandante vuole assolutamente recuperare quella appena persa, mi guarda e mi chiede di dare una mano a cercarla. Non mi faccio pregare e anche se l’impresa è senza speranza: è quasi buio ed abbiamo scarrocciato un bel pò dal punto nel quale l’abbiamo persa, mi cambio di nuovo e sono subito in acqua.

Provoa fare un primo di tuffo armato di mini torcia subacquea che però dopo qualche metro si allaga spegnendosi. Allora il figlio del comandante corre a prenderne un’altra molto più potente, l’accende e me la lancia…noooooo! sono troppo lontano e la manco, mi passa ad un metro ed inizia ad inabissarsi. Non provo neanche ad inseguirla, sarebbe inutile, ma la fisso mentre si inabissa, so che il fondo è alla mia portata. Nel frattempo mi ventilo e quando non la vedo più faccio la capovolta lanciandomi all’inseguimento. Sono sciolto e pinneggio bene anche se ho un pò di freddo ed è tutto grigio, non è bellissimo a dire il vero. I pensieri si accavallano quando ad un tratto vedo una luce, è quella dell’aldilà?, sono schiattato?, ma no è quella della torcia! l’agguanto ed inverto la rotta. Non faccio neanche in tempo a sentire le prime contrazioni che sono già in superficie accarezzato dalla fresca brezza notturna. La torcia emerge per prima, poi le braccia tese con le mani unite ed infine la testa. In superficie mi sento un po’ osservato ed infatti i nostri compagni di viaggio, tutti affacciati a prua della nostra bellissima goletta turca, esplodono in cori da stadio alla vista della torcia. Shane, un australiano simpaticissimo, dal fisico di un torello, orgoglioso della birra prodotta nel suo stato ed in giro per il mondo con la moglie Sarah prima di comprare una casa in riva ad una spiaggia sulla east coast australiana e vivere una vita di lavoro e famiglia, mi grida great! you are “fish-man” e tutti a fargli da eco inneggiando al ritrovamento della torcia. Poi disorientato da tanto entusiasmo rimango qualche istante con le braccia tese a sostenere la torcia e con questi che gridano come ossessi mi sento un pò come Cannavaro che solleva la coppa ai mondiali. Poi capisco che sono solo uno a mollo in mutande in mezzo al mare con una torcia in mano che stà cercando un’ancora che non è neanche sua ed è pure contento! Ma noi di Mare siamo così, del resto se siete su questo blog lo sapete anche voi.

….ad ogni modo tornando al racconto…. al mio rientro a bordo sono accolto come il protagonista di una impresa epica: pacche sulla spalla e mani tese ad aspettare il “cinque” si sprecano, poi arriva il comandante, mi guarda e dice: “thank you my friend” e se ne torna sornione a cucinare il pesce sulla brace.

Dopo un po’ iniziamo a cenare ma nel bel mezzo della serata il comandante la interrompe e mi regala una birra in segno di riconoscenza per il recupero della torcia. Si riparte con cori, tintinnii di posate sui bicchieri e chi ne ha più ne metta…a quel punto, complice anche l’alcol, sfido gli australiani ad un tuffo a bomba dalla battagliola, “non avete coraggio!” gli apostrofo (che detto ad un australiano è come dire a Tyson che non sa tirare di box!), mi alzo, cammino cercando l’equilibrio tra i corpi dei commensali e sparisco oltre la battagliola vestito. In un attimo mi ritrovo a mollo con Shane e Rhys ad urlare e schizzarci come bambini tra le risate nostre e degli altri compagni di viaggio che si sporgono brandeggiando birra ed altri miscugli alcoolici (le mogli degli australiani Sarah e Natalie e la mia, Sara, una nonna tedesca con il nipotino di cui non ricordo i nomi, due diplomatiche francesi dell’ambasciata spagnola Claire e Domitille ed un ragazzo indiano, Sufi, abbigliato come un santone asceta che ha ceduto però alle tentazioni terrene dell’avvenente Meredith, canadese, studentessa universitaria di psicologia alle prese con la ricerca di una sua posizione sul pianeta Terra).

Una combriccola simpatica ed eterogenea, una serata inaspettatamente diversa, una birra in premio ed io sono in mezzo al mare di notte: me la sciallo alla grandissima! In questi momenti vorrei attaccarmi in fronte un cartello con scritto “sciallasi!” ma non posso, come vado in giro poi?

Ad ogni modo al mattino seguente svaniti i fumi dell’alcol le ricerche dell’ancora continuano.

Vengo svegliato all’alba dal rumore del fuoribordo di chi ha iniziato prima di me. Salgo in coperta, recupero pinne e maschera, e respiro a pieni polmoni. Risciallasi! Dormono tutti tranne l’equipaggio ed il sole, che ansioso di dare inizio al nuovo giorno, fa le cose di fretta e gli rimangono ancora attaccati addosso pezzi di notte, le ombre.

Un membro dell’equipaggio tenendo una mano sulla barra del motore ed utilizzando l’altra per appoggiarsi al tubolare scruta il fondo, ora visibile, nel tentativo di individuare l’ancora e venirmi a chiamare affinchè la possa raggiungere. Nel frattempo io entro in acqua ed inizio a fare dei tuffi mirati sui punti che mi indica il comandante. E’ bellissimo, i raggi del sole si fanno strada nell’acqua turchese come i denti di un enorme pettine di fuoco che accarezza le posidonie mosse da una lievissima corrente. E’ Nettuno che dolcemente sveglia le proprie creature, ma dell’ancora nessuna traccia. Poco dopo il comandante decide di cambiare tecnica. Andando avanti ed indietro con la barca inizia a dragare il fondo utilizzando l’ancora di riserva come “rastrello” sperando di “uncinare” la catena ancòra tra le braccia di Nettuno. Inizialmente della catena neanche l’ombra poi quel burlone di Nettuno divertitosi forse troppo ad osservare i nostri goffi tentativi di ricerca e recupero decide che ne ha abbastanza ed all’ennesimo tentativo l’ancora-rastrello ci restituisce finalmente la catena.

Mi bastano un paio di tuffi per agganciare una cima con un moschettone all’ultimo anello (siamo sempre sui 18 metri), uno strattone come concordato, mi allontano per sicurezza ed inizio a guadagnare la superficie osservando l’ancora che con una traiettoria dapprima obliqua rispetto alla mia poi perpendicolare rispetto al fondo, sollevando una nuvoletta di fango come quella dei fumetti di quando uno si arrabbia, ritorna a bordo salpata dall’argano elettrico.

Eh si, Nettuno ci aveva giocato proprio un bello scherzetto, del resto lo sanno tutti che è un gran burlone. Forse la nuvoletta era proprio sua, infastidito per aver noi posto fine al suo divertimento….d’altronde c’era da aspettarselo, siamo noi gli intrusi e lui è il Re del Mare.