Odio il freddo, ma parecchio, anche se…


…se potrei tollerarlo per immersioni come questa: beluga!

(Prima o poi accadrà…è che tocca andare in Alaska nel periodo giusto)

Beluga


Swim The Island 2013: Stobenenelblu… presente!


E se ne è andata anche la terza edizione di quella che ormai è diventato una classica competizione del nuoto in acque libere di livello internazionale.

L’immagine che porterò con me è quella dei primi 2000 dei 5000 metri che ho percorso: mare limpidissimo, spruzzi d’acqua cristallina che si sollevano trascinati dal vento forte, il movimento sciolto dei due nuotatori che procedono paralleli a me, un uomo e una donna, il loro avanzare fluido fra le onde corte e rabbiose, le mani che cercano l’acqua, il viola e il blu degli inserti colorati delle mute che si muovono ritmici, l’isola di Bergeggi che troneggia su di noi, qualche sarago che si vede in lontananza sul fondo (ehhh l’apneista che è in me salta sempre fuori).

E’ stato bello, ragazzi, come sempre. Organizzazione sempre più “limata”, perfetta, grazie all’ottimo Matteo Testa e al suo staff. E alla fine, anche il tempo atmosferico è stato clemente ma non troppo: ha creato le giuste difficoltà, quanto basta a rendere questa gara una vera, memorabile nuotata in acque libere – in piscina ci stiamo anche troppo, vogliamo l’autentico mare.

Mi spiace solo che il mio socio Aqua2O non ci fosse (per problemi di salute al di sopra di ogni sospetto). Ma è una roccia: ci sarà l’anno prossimo.

Qui le classifiche di SwimTheIsland 2013.

SwimTheIsland2013


Swim The Island 2013: pronti?


Pronti per la gara di domani a Bergeggi? La terza edizione di Swim The Island.

Le premesse sono così così: il ciclone Penelope imperversa, le previsioni danno maltempo con mare mosso, onda fino a 95-100 cm…

Preoccupati? Che fare? Si va! Molte onde, molto onore.

Mi permetto di dare qualche consiglio ai tapascioni come me su come comportarsi ed alimentarsi prima della gara, dettato da un minimo d’esperienza (il mio track record? qualche Ironman, gare di nuoto in acque libere, un po’ di skyrunning, molte maratone):

  • fate una buona colazione, almeno 3-4 ore prima della gara, ricca e bilanciata, ma non eccessiva (ad esempio: caffé, yogurt, pane e marmellata/miele, magari un frutto non troppo acido; oppure un piatto di pasta in bianco, giusto con un po’ d’olio);
  • mantenetevi idratati;
  • state caldi (tuta, cappellino);
  • un’ora prima della gara assumete carboidrati facilmente assimilabili (tipo i gel di maltodestrine, meglio se con un po’ di caffeina, oppure barrette a base di carboidrati, con pochissimi grassi, che rallentano la digestione);
  • se non siete lì per giocarvi la vittoria, ma per vivere una giornata di sport, lasciate perdere il riscaldamento in acqua; fatelo invece a secco, seguito da un po’ di stretching;
  • usate la muta (se la possedete, ovvio);
  • se non siete superveloci, evitate le prime file in partenza, così vi risparmierete stress nei primi 500-600 metri (la “tonnara”) con la gente che tenta di passarvi sopra;
  • partite con una certa calma (specie se fate le distanze lunghe), in questo modo alzate lentamente le pulsazioni e in pratica vi scaldate in gara;
  • guardate dove andate, non vi fidate troppo degli altri, che spesso hanno pessime traiettorie (va bene la scia, ma fino a un certo punto…), prendete mire e riferimenti e usateli mentre nuotate – tenere una buona rotta vi farà risparmiare centinaia di metri di nuoto in più;
  • se il mare è mosso, guardate i riferimenti mentre siete sulla cresta dell’onda, non nell’incavo;
  • risparmiate energie nella prima metà della gara e, se ne avete ancora, spingete nella seconda metà della gara.

E in bocca a Nettuno!

SwimTheIsland2013


L’apneista e il muco


Noi apneisti siamo strane bestie.

Tanto per iniziare scendiamo giù nel blu dove gli altri subacquei vanno con le miscele, solo per il gusto di farlo, senza vedere una beata mazza, perché siamo del tutto concentrati a (1) arrivare al piattello; (2) riportare a casa la pellaccia – la gente non capisce la bellezza del gesto fintanto che non ci prova, ma questa è un’altra storia.

Poi abbiamo le nostre arcane pratiche respiratorie, il lavaggi nasali con lo yala neti e la pornografica yota, la ginnastica tubarica da fare davanti allo specchio (giusto per sentirsi più scemi a fare tutte quelle boccacce), l’otovent con il quale gonfiamo palloncini dal naso per imparare a governare muscoletti della gola che il 99.9% della gente ignora di possedere. Ci alleniamo percorrendo all’alba le scale di casa in apnea e di corsa. Teniamo come una reliquia la preziosa monopinna arrivata con amore (e mille difficoltà di spedizione) dalla Russia. E via dicendo.

Tutto per qualche metro in più in assetto costante.

Da qualche tempo, abbiamo anche acquisito conoscenze migliori circa la produzione di muco. Già, il muco. Fantastico. Eppure sì, ci interessa assai, perché il muco è quella cosa che ti blocca i seni frontali e impedendone la compensazione, oppure si va infilare nella tuba di Eustachio  bloccando la compensazione dell’orecchio medio e impedendo tuffi a profondità maggiori di 80 cm. L’incubo dell’apneista profondista. E allora occhio al muco!

La comunità apneistica è felice: abbiamo individuato i cibi che favoriscono una produzione eccessiva di muco e altri che l’eliminano (o almeno la contengono). Eccoli qua, strana gente.

Cibi_apnea


Squali! Squali! Squali!


Come non condividere questa serie fantastica di ancor più fantastiche infografiche sugli squali?

Impossibile resistere! E quindi eccole qui, cliccate QUI e… enjoy…

Flying_Sharks


Vado, mi rompo il timpano, e torno


L’errore (metà luglio)

Sharm El-Sheikh. Piattaforme da apnea del Freediving World. Termino la ventilazione, mi fermo un attimo prima di iniziare la capovolta, per raccogliere la concentrazione: il cavo guida è lì, steso nel blu, perfettamente verticale.

Parto.

Apnea_RockZen

Capovolta: mi pare decente. Spingo bene con la monopinna nei primi metri per guadagnare velocità. Compensazione: fluida, tutto “hands free”. Così riesco a tenere la posizione idrodinamica, braccia stese verso il basso.

Vedo passare il segno dei -20 m. sul cavo. Riduco la spinta di gambe. Risparmiare ossigeno.

Compenso per l’ultima volta la maschera. Sono intorno ai -30: basta spingere con le gambe, mi rilasso. Compenso di continuo la pressione nelle orecchie. Per ora è tutto fluido.

Sono in caduta. Guardo il cavo guida scorrere sempre più veloce. Controllo l’assetto, per non perdere la posizione verticale. La luce cambia: il blu è sempre più intenso. Cerco di non pensare ai metri, ma solo a godermi il tuffo, scivolando giù, mi devo far accogliere dalle braccia liquide del mio amico mare.

Dovrei esserci quasi: non resisto alla tentazione, alzo leggermente la testa e il piattello è lì, a -65 m, manca pochissimo. Incomincio ad allungarmi per la virata e sento che l’orecchio destro non è più “a pressione” (forse è stato l’alzare la testa? …ma era di pochi gradi soltanto, giusto una sbirciatina al piattello…). Ma ormai sono lì, dai, ora viro….PAC! Rumore secco di palloncino esploso di fianco all’orecchio destro! Il timpano! Merda!

Inizio a risalire veloce. Aspetto con orrore di sentire il fiotto di acqua fredda fare il suo ingresso nell’orecchio medio e provocarmi dolore e vertigini: sarebbe tipico. Ma per ora nulla. Salgo velocissimo: forse, se la velocità di risalita è super-rapida, la pressione all’interno dell’orecchio si mantiene superiore a quella all’esterno, impedendo l’ingresso dell’acqua – questo è il mio veloce ragionamento. Mi pare che il cavo guida oscilli lievemente davanti ai miei occhi (cosa fisicamente impossibile, avendo 30 kg di zavorra che lo tengono immobile): segno che ho una leggera vertigine da sbalzo pressorio nell’orecchio. Ma non è molto diverso da quando mi tuffo senza maschera, a occhi nudi: sotto una certa quota, non so se per effetto della temperatura o della pressione sul bulbo oculare o che cos’altro, vedo leggermente sdoppiato. Ho una certa abitudine al fenomeno, non mi scompongo e spingo come un dannato con la monopinna. Devo evitare l’allagamento dell’orecchio!

Salgo a velocità mostruosa, ci metto circa 20” a passare da oltre 60 metri alla superficie. Mentre risalgo, in quei pochi secondi, il pensiero va alle settimane, mesi, eoni, che dovrò passare fuori dall’acqua per curarmi il timpano. Ri-merda.

Uscito! Procedura standard: mi attacco al cavo, inspiro per quanto possibile, poi espiro un poco, piano, poi inspiro a pieno polmoni, e poi espiro piano…dò l’OK ad Andrea Zuccari (ndr assistenza impeccabile) e provo subito a compensare: sento che esce un filo d’aria dall’orecchio destro. E’ bucato. Sì, il timpano è proprio bucato. No way. Dolore: zero. Fastidio: zero. Sangue: zero. Bah.

Torno a riva, mantenendo la testa fuori dall’acqua e meditando su quanto sono idiota. Davanti a me, l’ologramma mentale di Umberto Pelizzari che mi insulta.

L’epilogo (fine luglio)

Il forellino nella membrana timpanica era microscopico. E ha iniziato a rimarginarsi subito. Mai avuto dolori. Per una settimana sono stato fuori dall’acqua, mettendo qualche goccia di un medicinale cortisonico/antibiotico, per precauzione, come da prescrizione dell’otorino. Che, nota bene, mi ha permesso di nuotare dopo soli sette giorni (cosa che ho prontamente fatto). A tre settimane dall’incidente (non ancora passate), sempre seguendo le indicazioni dell’otorino, potrò tornare a fare apnea, o quantomeno a provarci con cautela, sincerandomi di non avere complicazioni.

La morale

  1. Il timpano si rompe più facilmente di quanto crediate. Se si è in caduta ad una discreta profondità, la velocità è ben superiore a 1 metro/secondo, e basta esitare un attimo perché accada. Io ho esitato, appunto. Dunque, non esitate: al primo accenno di compensazione latitante, virate immediatamente.
  2. Capita di frequente che la profondità di un tuffo sia determinata dalla compensazione: quando non compensi più, ti giri e risali. Quando la compensazione si fa difficoltosa, non fate troppo affidamento sull’esperienza pregressa nel valutare se la pressione sulle orecchie è ancora accettabile e se potete quindi guadagnare quel mezzo metro in più: io non ho avvertito nessuna pressione particolare, era come tante altre volte. Venivo da due settimane di apnea abbastanza intensa e chissà, magari la membrana era infiammata e indebolita, così ha ceduto prima.
  3. In caso di rottura del timpano, mantenere i nervi calmi e risalire come un siluro sembrerebbe avere dei vantaggi, per quella che è la mia esperienza, almeno se la lacerazione è di dimensioni contenute: probabilmente riduce il rischio d’allagamento dell’orecchio medio.
  4. Ho avuto fortuna (gioca un grosso ruolo nella vita).

L’Icaro degli abissi


Herbert Nitsch

Herbert Nitsch, 42 anni, austriaco, ex-pilota aereonautico, è uno di quegli atleti che mi piace definire “epocali”: ha battuto 31 record mondiali in tutte le discipline del freediving.

Poco elegante nella nuotata rispetto alla maggior parte degli apneisti d’alto livello (guardate), l’autodidatta Herbert Nitsch ha più che bilanciato questo difetto con tempi d’apnea straordinari (oltre 9’ di apnea statica), incredibile capacità di compensare la pressione sui timpani e un notevole ingegno, dote che lo ha portato a innovare attrezzature e metodi di compensazione.

Herbert Nitsch si è messo intesta un’idea pazza, un chiodo fisso: raggiungere i 300 metri di profondità nella specialità più estrema del freediving, il no-limit. Il no-limit è una discesa negli abissi, trattenendo il fiato, trainato da una slitta dal peso illimitato, risalendo in superficie trascinato da un pallone gonfiato in profondità che fa da ascensore. Per dare un’idea di quanto folle sia la profondità di 300 metri, nel 1999 il grande Umberto Pelizzari con una discesa a 150 metri stabilì un record che durò anni.

Io, che non amo il no-limit (preferisco le specialità più pure e muscolari, come la discesa in assetto costante con monopinna o a rana, che fra l’altro sono meno pericolose), ho sempre pensato che Nitsch con questa fissazione dei 300 metri ci avrebbe rimesso la pelle. E’ una profondità demenziale anche agli occhi d’un apneista. Potete facilmente intuire l’opinione dei medici: perché se è vero che la scienza comincia a capire qualcosa della fisiologia del corpo umano in apnea a più basse profondità, quelle quote abissali sono davvero un’incognita.

E poi ci sono i pessimi precedenti: negli ultimi 15 anni il no-limit ad alto livello è stato praticato sì e no da una mezza dozzina di apneisti, e due di essi, cioè Audrey Mestre e Patrick Musimu, ci hanno rimesso la vita.

Ma niente, Herbert è andato avanti nella sua rincorsa ai -300.

Il 6 giugno 2012 Herbert Nitsch è sceso negli abissi al largo dell’isola di Santorini a 244 metri, per battere il suo precedente record di 214 metri. Ha raggiunto quota -244. Ma nella risalita qualcosa è andato storto: ha avuto un black-out, è svenuto, e l’eccessiva velocità di risalita negli ultimi metri (ndr: in condizioni normali, lui è solito fare una breve sosta di decompressione IN APNEA – chi ha dimestichezza con le immersioni si rende conto subito che si tratta di un alieno) lo ha portato a sviluppare una grave sindrome da decompressione. Con tutto quel che segue: danni al sistema cardiocircolatorio, paralisi, perdita di memoria, difficoltà a parlare.

Nella prima intervista dopo l’incidente, a distanza di nove mesi, Herbert ha dichiarato: “Dal punto di vista medico, ho avuto un infarto multiplo. Proprio ciò che succede allo champagne quando si toglie il tappo è successo al mio sangue: l’azoto disciolto nel sangue, ha avuto un’espansione esplosiva durante la risalita, creando bolle che hanno danneggiato cuore e cervello”.

Ora va un po’ meglio. Ma il fisico è gravemente leso e la carriera apneistica appare al momento finita. Herbert racconta: “Ho seri problemi di linguaggio e memoria, ma ormai sono familiare con queste difficoltà e sono diventato bravo a trovare un altro modo di dire le cose quando le parole non mi vengono in mente. Ma con i nomi delle persone non c’è verso, non li ricordo mai…”. E riguardo alle difficoltà motorie dichiara: “Provo a correre, è ancora più divertente, ho uno stile che è una via di mezzo tra il passo dell’oca e la Lambada. Ma resto un completo disastro se provo a versare il tè con la mano destra “.

Insomma, nonostante la sua situazione, Herbert, l’Icaro delle profondità che è voluto scendere troppo negli abissi, mantiene il suo senso dell’umorismo e resta l’ironico atleta dell’esilarante e assolutamente imperdibile videoToilet Dive“.


Crash dive!


“Le condizioni marine non sono buone, non si può andare a cercare gli squali (a 22 miglia nell’Oceano, ndr). Se volete facciamo una immersione nel canale tra Pico e Fajal.” dice Martin con un sadico sorrisetto.

Accettiamo tutti.Tempesta_Azzorre

Così, caricate le attrezzature e saliti a bordo, sotto un cielo grigio da tempesta perfetta, Justin guida il gommone verso l’uscita del porto. L’acqua sembra melassa, ma appena superiamo il fanale di segnalazione, vento e onde iniziano ad arrivare da tutte le parti. I fondelli delle bombole mettono a dura prova il pagliolato del gommone, le pinne fanno concorrenza ai pesci volanti e noi subacquei sembriamo turisti sul toro meccanico al Lunapark…yooooohooooo! Ecco cosa intendeva Martin con il suo sorriso sadico: il rock & roll era dietro l’angolo, ma noi di Stobenenelblu l’avevamo già capito!

Durante il breve tragitto penso a come indossare jacket e pinne senza finire fuori bordo, ma non mi viene in mente niente. Alla fine, in qualche modo, raccattiamo e indossiamo tutti i pezzi…

Ci buttiamo e pinneggiamo a capofitto verso il cappello della secca Baixa do Sul  a circa 7 metri per iniziare il solito giro a spirale intorno al pinnacolo, prima a scendere e poi a salire. La corrente si sente ed il moto ondoso pure. Le onde si avvertono fino ad una profondità pari a metà della loro lunghezza (d’onda appunto). Murene, scorfani ed altra fauna costiera più qualche barracuda sono stati gli avvistamenti, per il resto non mi ricordo quasi niente, intento com’ero, come la gran parte dei subacquei, ad arrampicarmi sugli scogli per contrastare la corrente ed evitare i vermocani (a migliaia sulle rocce della secca).

Dopo 45 minuti di immersione risalgo con un primo gruppetto, un tedesco a cui si è rotto il manometro finisce l’aria e si attacca alla guida.

In superficie è ancora peggio, mi tolgo il jacket e Justin lo salpa in un attimo.

Cicatrici di schiuma bianca contenevano i marosi che sovente si abbattevano sul fasciame (questa è un po’ alla Melville ma mi piaceva anche se fuori luogo…..anche perchè i gommoni non ce l’anno il fasciame!). Comunque… il beccheggio rende veramente impegnativa la salita a bordo, io ci riusco al terzo tentativo, Raffaele al secondo. In acqua una guida cerca invano di spingere verso l’alto una ragazza svizzera, senza troppi convenevoli le afferro l’avambraccio e l’incavo del ginocchio e la salpo sul tubolare. Arriva il mal di mare ma resisto. Dopo un po’ anche gli altri sono a bordo e Justin dirige alla massima velocità casa. Visto da fuori il gommone deve sembrare un sasso piatto lanciato da un ragazzino che rimbalza sull’acqua.

Superiamo il fanale e come per incanto torna la quiete. L’ormeggio è fluido, il gommone si muove preciso come se fosse su di un binario invisibile, nessuno parla. Lo stesso cielo grigio ci accompagna mentre trasportiamo le attrezzature verso il Cetacean Watching Azores per il rituale del risciacquo. E’ curioso vedere dei subacquei vestiti di tutto punto  fermi sulle strisce pedonali per raggiungere il diving.

E così, un po’ tuonati ma pieni di Oceano, il mio socio di mare Raffaele alias RockZen ed io ci incamminiamo sulla strada polverosa che percorriamo quasi ogni mattina. E che stavolta ci porterà verso il Baia Da Barca, dove a bordo piscina ci aspettano le nostre allegre famigliole.

Queste sono le Azzorre ragazzi!


Buongiorno Mr Grande Squalo Martello!


Il gommone corre veloce sulle onde dell’Atlantico rientrando da un pomeriggio di mare e apnea come solo le isole Azzorre (e il Cetacean Watching Azores) sanno regalare. Scruto la superficie oceanica: ė bella, è ipnotica, è il mio mondo. E poi non si sa mai…
Infatti, davanti all’isola di Faial, sbuca una pinna! Grido, mi alzo, indico. Lo skipper rallenta e aggiusta la rotta per avvicinarsi con un’ampia virata. “Shark! Shark!”, grida lo skipper. Ci avviciniamo ancora di più e finalmente lo distinguiamo: è un Grande Squalo Martello! Il Great Hammerhead Shark, il più oceanico della famiglia dei martello! Sta inseguendo, nervosamente e con inaspettata agilità, una grossa ricciola. Un bel tre metri abbondanti di squalo.
Io neanche penso: ho la muta addosso, afferro e calzo come un automa la monopinna, infilo la maschera, dico “I’m going” e mi calo in acqua, senza badare alle proteste dello skipper e di mia moglie (che non è abbastanza veloce da entrare in acqua…), ma badando piuttosto a non fare troppo rumore per non infastidire l’animale.
Appena il tempo di mettere a fuoco la situazione e subito il martellone perde ogni interesse per la ricciola, puntando deciso ME. Dritto dritto, come solo i grandi squali pelagici sanno fare. E come altre volte in vita mia durante incontri con grossi squali, un pensiero fulmineo attraversa la mia mente: “Oh cazzo!”. Ma so che devo tenere la posizione, fingendo persino indifferenza. Lo squalo arriva ai classici 30 cm dalla faccia – ho una visione ravvicinata del suo faccione e della sua dentuta bocca semiaperta – poi vira di 90 gradi: ha soddisfatto la sua curiosità atavica.

GrandeSqualoMartello

Mentre il mio battito cardiaco riprende, insieme alla respirazione, lui fa ancora un giro completo intorno a me e così lo posso ammirare in tutta la sua magnificenza di predatore dell’oceano: il testone con l’occhio inquisitivo, il corpo slanciato, la pinna dorsale altissima, il colore marrone che vira al grigio-verde, cangiante.
A questo punto lo squalo mi ha evidentemente classificato a metà tra i due estremi “preda” e “predatore”: in pratica, secondo il suo metro di giudizio, sono finito tra i non-buoni-da-mangiare-ma-nemmeno-pericolosi, praticamente un essere irrilevante.

Quindi, con indifferenza, il grande squalo martello prende ad allontanarsi a normale velocità di crociera. Ma io indosso la monopinna! Posso nuotare veloce! E allora nuoto sott’acqua di fianco a lui per almeno una cinquantina di metri, e me lo guardo, sorseggiando il momento. Poi non tengo più il suo passo, scoppio e risalgo. E sono uno shark-obsessed felice…


Non mangiatemi


Se date un’occhiata al banco dei surgelati nei supermercati, è facile che vi imbattiate in tranci di carne di squalo, tipo quello riportato nella foto scattata all’Esselunga di Viale Suzzani di Milano. Tranci così si trovano un po’ in tutti i supermercati italiani.

Il messaggio che voglio darvi è semplice e diretto: non comprate mai carne di squalo. Non mangiate gli squali.

Le motivazioni sono varie e le riporto in ordine casuale.

  1. Sono animali a rischio estinzione, come altri predatori in cima alla catena alimentare dell’oceano.
  2. La loro diminuzione, o addirittura la loro estinzione, causa gravi squilibri all’ecosistema marino.
  3. Uno squalo vivo, oltre ad essere bello, vale molto più di uno squalo morto, perché dà lavoro alla gente: ad esempio i centri diving portano i subacquei ad immergersi con questi animali, dando lavoro a guide, skipper, personale amministrativo, ecc. Inutile dire che con squali vivi e abbondanti, si tratta di un’esperienza ripetibile, che genera reddito per chi è coinvolto. La pesca di uno squalo è invece “una tantum”: dopo che lo hai ucciso, è finita. E la carne, non essendo particolarmente pregiata, è venduta a basso prezzo. Gli squali ci mettono un sacco di anni a raggiungere la maturità sessuale, generano pochi squalotti, quindi la loro cattura ne riduce molto velocemente il numero. Economicamente, la pesca dello squalo è un nonsenso, roba da disperati.
  4. La carne degli squali non è particolarmente buona e soprattutto è piena di mercurio (ndr questo vale anche per pesce spada e tonno). Il mercurio fa malissimo al nostro organismo, perché può produrre cecità (non è una leggenda metropolitana, come quella legata a certe pratiche adolescenziali…qui è tutto vero) e altri gravi disturbi del sistema nervoso.
  5. C’è un sacco di altro pesce che non presenta questi problemi e inoltre è buono e anche a buon prezzo (qualche  esempio? pesce spatola, palamita, sgombro, sardine, acciughe). Chi dice che questi pesci non sono buoni è perché non ha mai avuto occasione di assaggiarli cucinati come si deve – presto su questo blog ricette a base di pesce 😉
  6. Assurdo pensare che lo sterminio degli squali sia in fondo una cosa giusta “perché gli squali attaccano l’uomo”: gli attacchi sono rarissimi, è molto più probabile essere colpiti da un fulmine o essere sbranati da un cane. Io ho fatto centinaia d’immersioni con squali, anche grossi e potenzialmente pericolosi, sia in apnea che con le bombole e mai, dico mai, ho visto il benché minimo accenno di aggressività nei miei confronti.
  7. E poi, gli squali sono troppo belli per essere mangiati…Questo breve filmato girato con la GoPro non riesce (a causa della mia imperizia) a fare completa giustizia della composta eleganza di questi curiosissimi figli di Nettuno che ho incontrato più volte al largo delle isole Azzorre. Ma almeno un’idea ve la può dare.

Per la cronaca, in Italia gli squali più comuni sul banco del pesce sono la verdesca, o squalo azzurro, o squalo blu (la specie del filmato), il palombo o nocciolino, lo smeriglio, il mako. Lasciateli perdere. Non com-pra-te-li. Protestate con la direzione del supermercato. E compratevi invece altri pesci la cui pesca o allevamento è ecosostenibile: farete un gran bene alla salute di mari ed oceani. E forse i vostri figli e nipoti potrenno nuotare in mari ricchi di creature marine, anziché in acque senza vita. Pensateci.